Fermo davanzale
Rebellato editore
Padova 1961
IL VANTAGGIO PRIVATO
Edizioni Salvatore Sciascia
Caltanissetta, 1967
(riedito nel 1970)
LO STATO D' EMERGENZA
a cura di Emilio Villa
con disegni di Valeriano Trubbiani
la Nuova Foglio editrice s.p.a.
Pollenza - Macerata 1971
Da: TAM TAM n. 678, 1974,
Giulia Niccolai
I disegni di Valeriano Trubbiani, che costituiscono la base iconografica del volume, rendono bene con la loro crudeltà barocca il tono delle poesie della Malfaiera.
Sono Poesie che vanno lette e "gustate" come concentrati di rancore e di rabbia.
Vi sono senz’altro due chiavi, anche in senso musicale sulle quali sono stati composti- costruiti questi testi, quella, per me più affascinante, dell’invettiva di timbro biblico, e quella, forse meno interessante, del soliloquio.
Meno interessante mi sembra, perché legato a certi modelli neopetrarchistici.
Diciamo la prima chiave aiuta il lettore a capire come mai ogni poesia gli si presenti come brick di consapevolezza colata sulla pagina come un lingotto in una lega di linguaggio misto: parlato e colto, quotidiano e neoclassico.
D’altronde questi due poli sono individuabili anche emotivamente, una volta eliminato per sempre il soliloquio, che è per definizione disperato, in un aspetto tranchant e in un aspetto morbide.
La stessa assenza di punteggiatura porta a definire questi versi come entità compatte, senza dispersioni nè sbavature, e il gioco delle rime interne non fa che accentuare questa sensazione.
Allora direi che Lo d’emergenza è un libro composto da un certo numero di "calchi", che contengono emozioni filtrate, a estratti di emozione, da e per il museo o da e per la vita.
VERSO L' IMPERFETTO
a cura di Adriano Spatola
con una nota introduttiva di Alfredo Giuliani
Ed. TAM TAM, 1984
Mulino di Bazzano
Ragionevole, petrosa, disincantata è la singolare poesia di Anna Malfaiera. Verso l' imperfetto (edizioni di Tam Tam, pagg. 86, lire 10.000) è un libretto senza immagini e senza colori (o quasi), spoglio di tutti gli effetti e delle suggestioni che generalmente fanno la poesia.
La Malfaiera non cerca di restituire gli aspetti del mondo esterno; e non cerca neppure di sostituire il mondo esterno con un mondo fatto di parole magiche.
La Malfaiera sa bene che il verso si apre allo scrittore con uno "slancio augurale"; e lei subito lo frena, lo costringe a riflettere sui nudi residui dell' esperienza. Non vuole che il verso vada in cerca di illuminazioni, che divaghi a caccia di facili intensità. Come si va per funghi, il poeta potrebbe dire: "vado per metafore". Ma non Anna Malfaiera.
Quando elimini tutti i trucchi e ti vieti le scappatoie, ciò che ti resta è una dura realtà concettuale, che pare astratta ed è invece il senso concreto del tuo esistere:
"La negazione come proposta / non è zero ma una variante. / Sono critica senza intenzione / anche se incapace e in difetto / e in contraddizione di quanto / ho già affermato. E non avendo / nient' altro io mi dò a questa vita". Chissà quanti potrebbero riconoscersi in una poesia così guardinga, così impoetica, e che tocca nel profondo con la sua pura ostinazione a pensare le cose come sono.
Senza volerlo, e dunque con rara efficacia, Verso l' imperfetto suona ironico e grottesco, e rispettoso della verità comune: "L' atto del desiderare si esprime ormai / con la resa dell' indecisione...".
Alfredo Giuliani
la Repubblica.it 13 luglio 1984
e intanto dire
a cura di Mario Lunetta
Ed. il Ventaglio, Roma, 1991
Postfazione di Giulia Niccolai
Cara Anna,
già dalla prima lettura di "E intanto dire", mi sono sentita parte in causa, una degli interlocutori o dei destinatari privilegiati che avevi tenuto presenti mentre andavi minuziosamente approntando questo tuo esplicito ed esaustivo messaggio nella bottiglia, tu naufraga sull’isola deserta al terzo piano di Via S. Quintino 27.
Poiché naufraga su un’isola deserta lo sono anch‘io da anni per scelta e per convinzione (tanto è vero che mi pare ormai condizione privilegiata), sono stata felice che tu avessi pensato a me quale possibile presentatrice di queste tue poesie, ma il problema che misi è subito presentato è stato quello di avere troppo da dire, un troppo scomodo che mi costringeva a mostrare le carte perché non poteva che sconfinare dalla scrittura vera e propria per esaminarne invece a fondo il nucleo esistenziale attorno al quale si avvolge e si svolge la tua speculazione, il tuo «rovello interiore».
Che male c’è in questo? ti chiederai, ci mancherebbe altro che tu non lo facessi... Il guaio è che dopo quattro anni di insegnamenti buddisti e di meditazione con un Lama tibetano, mi è impossibile parlare di «speranze illusioni piaceri colti al volo» o del loro contrario, di sfiducia, di dubbi, di insoddisfazione, se non in un ‘ottica buddista quale è la mia, ora, ma non la tua.
Converrai che in questo senso, il mio non è un compito facile:
potrei strafare, «parlare dal pulpito», diventare didattica e insopportabile...
Già, ma credo che questo tu lo sappia benissimo. Anzi, ho il sospetto che tu abbia scelto proprio me per stanarmi e mettermi alla prova.
Credo anche che «tu abbia capito che io avessi capito» quando hai ricevuto quel mio biglietto in cui ti davo della machiavellica e della tremenda e aggiungevo: se ha da essere un duello tra Samurai, che sia! Sto affilando la spada.
I nostri cammini distinti e contrari, razionalistico il tuo, intuitivo il mio, forse portano alla medesima meta.
La tua sfida, il mio coglierla, le sento come assoluto fair play, il modo più corretto per provare a noi stesse che la poesia è ancora viva e ci si può anche affondare i denti quando finalmente la si ritrova in questo nostro panorama grigio e tedioso da anni, ripetitivo senza avere niente da dire, servile, indeciso e furbesco, tutto smalto, tutto fumo e niente arrosto.
Alla pagina precedente ho definito la tua poesia una speculazione e, tra virgolette, un rovello interiore.
Rovello interiore è un‘etichetta di comodo ma che tu stessa usi, tanto è appropriata e che infatti ti si è incollata addosso già dal 1967, anno d’uscita del tuo secondo libro, Il vantaggio privato seguito poi da Lo stato di emergenza del ‘71 e da Verso l’imperfetto dell’84.
Il tuo primo libro, Fermo davanzale del ‘61, esige forse un approccio diverso anche se, scritto da giovanissima, quando la tua vita era ancora radicata in provincia, contiene però in nuce la precisa configurazione di come in futuro si sarebbe esplicata la tua poetica.
Qui l’ho voluto ricordare per citarne un verso: «Lasciata la mia casa mi sentirò nel vento» perché quella casa è sicuramente la stessa de Il trasloco, poemetto che chiude E intanto dire e i cui ultimi versi annunciano: «La casa sarà demolita. Noi vedremo / la sua devastazione e non in vano ormai cresciuti / tutti senza memoria per rifarci nuovi».
La gioia che ho avuto nel trovare questo reperto e nel poter accostare due dichiarazioni così tra loro distanti nel tempo, mi ha dato la sensazione di essere riuscita a comprendere in un attimo, in un lampo, l’essenza di tutto il tuo lavoro di quasi trent‘anni, la coerenza, il rigore, la tenacia.
Quel «... mi sen tirò nel vento», quando avevo scritto sulla tua poesia nell ‘84, l’avevo interpretato come timore della perdita del baricentro, paura dell’alienazione e, a possibile conferma di ciò, anche in quest’ultima raccolta il vento, a cui dedichi un poemetto e che riappare in altri cinque o sei versi sparsi, ha sempre una connotazione inquietante o irritante per te, è comunque portatore di confusione e di disagio così come lo sono certe emozioni non risolte o i rimpianti, i dubbi, il vuoto degli affetti, tutti quei veleni sottili che dimorano nella nostra mente e che non siamo capaci di sradicare.
Di tutte queste cose imbarazzanti tu parli oggi come ne hai sempre parlato, con una audacia sconcertante sorretta da una razionalità e una speculazione «scientifiche» e da una scrittura che nelle tensioni e negli equilibri interni riesce sempre a sublimare il contenuto grezzo.
L‘alchimia che magicamente determina questo risultato è naturalmente l’autenticità.
Mi preme subito aggiungere (se ancora ce ne fosse bisogno), che pur trattando costantemente di ombre e di fantasmi impalpabili, insomma della parte nascosta della luna, l’energia della tua introspezione risulta sempre luminosa così come il bilancio finale dell’insieme, anche per il lettore, non può che essere visto in attivo. Una coincidenza che tocca me in modo particolare è quell’immagine della casa demolita e della sua devastazione (negli ultimi versi del libro che ho già citato), perché ogni volta che tento di spiegare a qualcuno cosa sia il meditare e quanto il meditare differisca dal pensare, dico: è come spalare macerie, oppure, è come macinare sassi.
E naturalmente, dicendo così, cerco di esprimere sia la fatica fisica che il meditare comporta, sia il fatto che l’operazione che si compie è sempre quella di togliere, «separare la materia dalla mente».
In tale luce non posso che definire questo tuo libro una lunga meditazione elaborata per e attraverso la scrittura.
Che ad esempio il meditare sia fatica fisica perché ne sono forzatamente coinvolti e partecipi quale fondamento o supporto anche i muscoli, i nervi, il midollo delle ossa (in modo che il corpo risulti integrato con la mente), lo dici tu stessa nei versi d’apertura della terza poesia di E intanto dire con queste parole. «Disposta ad indugiare cauta mi trovo avvolta / dal torpore che il gioco delle parole / incastra nel cervello nella pelle nelle membra / tutte nelle capsule dei denti in apparenza / insensibili privilegiate in oro».
Dove allora «il gioco delle parole» diventa la scrittura, il risultato tangibile di quel «cauto indugiare» che è il meditare e,che appunto senti «nel cervello nella pelle nelle membra tutte» persino «nelle capsule dei denti in apparenza insensibili privilegiate in oro».
Così, mi sembra di poter dire che in questi ultimi quattro anni, sia tu che io non abbiamo fatto che meditare, con la sola differenza che, alla fine, tu hai prodotto questo bellissimo libro e io non ho scritto più niente o quasi.
Ricordo anche che una volta per telefono mi chiedesti se il seguire gli insegnamenti buddisti, come stavo facendo, non mi rendesse forse la scrittura estranea e impossibile: perché questo, tu, non ti sentivi di poterlo fare, non accettavi l’idea di vivere senza poter scrivere.
In effetti, nemmeno io sentivo di poterlo fare proprio perché la scrittura era troppo importante per me.
Ma l’essere riuscita a rinunciare anche a questo mi ha reso più libera perché mi ha fatto capire a fondo la natura di quel mio attaccamento e quanto esso mi rendesse vulnerabile e ricattabile nei confronti della vita.
Soprattutto ora che sono entrati i mercanti nel tempio. Le macerie che si spalano sono macerie e non terra, non sabbia, perché sono rinuncia, roba morta sulla quale non può crescere più niente.
Questo non vuol dire che io non riesco o non posso più scrivere (ci mancherebbe altro), significa invece che sono riuscita a estirpare la radice del mio eccessivo attaccamento, il desiderio di riconoscimento e altre simili afflizioni. Il nodo che tu hai ancora da sciogliere è indubbiamente quel Fatto crudo della terza sezione del libro intitolata Luoghi della parola in cui tiri tutte le fila e, a distanza ravvicinata, guardi in faccia e fai i conti con quelle verità che sono man mano affiorate in E intanto dire e in Un adesso così.
Come nei tuoi libri precedenti, anche in questo, il titolo generale e quello delle sezioni interne viene sempre estrapolato da versi di poesie, poesia-chiave che solitamente sono pietre miliari della tua realtà concettuale in continua elaborazione.
Così, E intanto dire è tratto dalla terza poesia del volume, quella stessa di cui ho già citato l’attacco anche perché esprime in modo esemplare la forza sotterranea, il respiro ampio e lento della tua dialettica e della tua teoresi.
Questa terza poesia è dichiarazione di poetica, scrittura sulla scrittura e non a caso viene dopo la prima nella quale spieghi a volo d’uccello in cosa consiste per te il vivere, e dopo la seconda dove ne tenti un breve bilancio. Più che altrove mi è sembrato infatti che in questa raccolta tu divenga un filtro che traduce lo scorrere della memoria intesa però sempre come esperienza e non come nostalgia.
Le maglie dei tuoi procedimenti paratattici (sempre rivelatori della costanza del procedere), le maglie, sono qui più ampie, meno assillanti anche se, come sempre, non ti concedi un attimo di tregua.
In passato è stato molto acutamente notato che certi tuoi libri dipanandosi in enunciati sono del tutto privi di immagini.
Questa volta la tua dichiarazione concettuale si è in vece aperta alla luce, alla pioggia, ai colori, alle stagioni, alla città, a un esterno che, più che fare da specchio alle emozioni, di volta in volta ti può essere scenario amico o estraneo ma forse, soprattutto, viene vissuto quale presenza che tenti di insegnarti qualcosa. È così?
«Se m’inoltro nei perché so che tutto
sarebbe stato anche senza di me.
In un mondo così dilatato
mi sembra di essere assente».
Tra le diverse poesie brevi, quasi tutte esemplari della seconda sezione, Un adesso così, ho voluto citare questa di soli quattro versi per la sua disarmata limpidezza priva di mediazioni tra la premessa e la sintesi.
Come in passato, anche in questo volume le poesie si presentano però sempre a blocchi compatti di scrittura, privi di punteggiatura, se non per il punto fermo.
All’ interno dei poemi, i versi hanno un ritmo cadenzato e spesso si risolvono per cesura nel verso seguente formando un «incastro» perfetto di rime interne e di condensazioni di concetti che vibrano di sorprendente chiarezza.
Per ultimo, vorrei ricordare nella terza sezione quella esilarante invettiva contro la televisione che è quasi uno scioglilingua: «Nel mese di novembre sarò canalizzata.,. » e la poesia che segue, quella specie di radio-cronaca delle immagini che il televisore indifferenziatamente trasmette: «L'indigena nell’isola sperduta corre... » dalla quale, come avrai forse capito, mi ha divertito prendere lo spunto per l’inizio di questa mia lettera a te. Un grande abbraccio da una indigena all’altra.
Giulia Niccolai
Ottobre, 1989
Finito di stampare nel mese di ottobre 1991
presso le Aziende Grafiche CHICCA - Tivoli
IL PIU' CONSIDEREVOLE
Premio "Lorenzo Montano”, 1993.
Anterem Edizioni, Verona settembre' 93
Nota critica di Giuliano Gramigna
Cominciamo dalla coda di questo testo poetico - sempre che si dia davvero un principio e una coda:
Siamo al grado zero di valenze perdute
un inventario di complicità casuali e no
di assurdità credibili. Campionario.
Furbi cretini porci scemi. E l'orco?
e gli sciacalli? e i coglioni? Ahi!
Faccia a faccia insultiamoci corpo
a corpo scontriamoci persiste accanita
la volontà irriducibile del sopraffarci.
Può sembrare il bilancio di una situazione psicologica: ma al controllo di una rilettura appena attenta, nessuno dei termini esibiti, magari con la sottolineatura dell'interrogazione o dell'interiezione, rimanda a qualcosa che sia costruito nelle pagine precedenti (la raccolta di Anna Malfaiera si risolve molto semplicemente in due sezioni: "Il più considerevole" e " La porta in faccia").
Anche qui lo sfogo caratteriale, del resto appena delineato, resta fermo, dirò così incasellato sul posto: non definisce come attore l'ìo che vi compare, come compare in altri punti del testo, fino a sdoppiarsi nel riflesso dello specchio (Mi pettino allo specchio. Contemplazione / negata la smorfia abituale subito evidente [...]")
Non è la "storia di un'anima" o i sobbalzi di uno psichismo che il testo ambisce a restituirci. Su questa strada non si andrà molto avanti, Il corpo stesso che è comparso non dà molte certezze "mio corpo estraneo/ al quotidiano scorrimento inconsistente / eppure vigile respiro unico affannato / non riparato dal disincanto alla porta", " proprietà non sempre garantita [...] dissimula scorie inganni malafede". Quel corpo, quell'automaton che arranca attraverso i versi, necessita di qualche cosa che lo trasformi in soggetto.
Leggero persistente mi piace il segno
che s'impone tra tanti libero. Mi piace
quando aggregato cosciente produce
la cosa pensata scritta [...]
Ecco, direi l'autentico evento della poesia di Anna Malfaiera: l'avvento del segno, il suo mettersi in relazione con quella cosa ancora vuota che è l'io, a istituirlo soggetto.
Il segno invade la pagina bianca determina
la direzione sfoltisce gli intenti ossidati
i reperti resistenti nel cumulo delle pagine
argomentate opera assalti consecutivi contro
lo smarrimento persecutore. Non è il caso
a estrarre la premura del dire se risulta.
L'operazione "del dire" è materialistica, consiste in uno sgrossamento della ganga - operazione - contro una resistenza del materiale, ruggine, ossidazione. Quel che si dice lo si estrae da un pieno: " A chi dirò a chi meglio potrò a chi mai / mai dove quanto dire quando e perché /l'urgenza del dire non ha mai fine. E' l'unico punto in cui la lingua di questa poesia sembra imbrogliarsi, scoprire il suo momento di crisi: mentre prima e poi esibisce una meccanica (materialistica?) imperturbabilità.
Ma che effetti ha prodotto l'incontro con il segno? Effetti di inconscio, direi, ossia di manipolazione del senso.
Uno potrà essere questo: che tutta la raccolta sembra escludere, deliberatamente, l'uso della metafora, così connessa, secondo condizione, alla poesia.
Salvo forse in due casi, " i progetti da sempre / si ritraggono chiudendomi la porta in faccia [...] " è una metafora, e delle più convenzionali - da metterci in sospetto, tanto più che viene usufruita ("La porta in faccia") quale titolo generale della seconda sezione. Si può pensare che sia stato un modo per depotenziarla, per scaricarne il valore residuo, usandola come targhetta o cartiglio, è il caso di dirlo, su una porta.
Il secondo esempio (trascurando un fuggitivo "silenzio del giorno curvato" ) mi sembra ancora più dubbio:
Come edera di un tronco annoso arroccata
vita cumulo ispessito di sotterranei
camminamenti fusioni di giorni e notti
innesti raffiche di stagioni inesauste
legami avvinghiati tenacemente resistenti.
Il rapporto comparativo fra vita e sedimentazione di terricci, cunicoli, radici etc. ("la vita come...") evapora quasi immediatamente: residua solo la Cosa, densa e insieme perforata, in cui si configura, con molta materialità " diretta", l'idea stessa di accumulo.
Al posto lasciato vuoto dalla metafora, c'è un meccanismo che definirei, in senso largo, metonimico, di adiacenza. Gli enunciati si dispongono l'uno a fianco dell'altro, la quasi-inesistenza di punteggiatura favorisce lo scorrere del senso, che non resta più legato a una frase ma inonda, per dir così, tutta la sequenza poetica: movimento nelle due direzioni, giacchè il senso può anche risalire il testo, con effetto di choc en retour.
Questo meccanismo non provoca tanto incertezza conoscitiva nel lettore, quanto la sensazione che dentro ciascun blocco la circolazione si mantenga in atto, che si dia una sorta di equivalente dignità d'ogni elemento rispetto al discorso, che astratto e concreto smettano di contrapporsi. E' astratto, nel vecchio valore, un passaggio come questo?
Differenze di natura in una assortita
collocazione. Percorrono in lungo e in largo
flussi d'intolleranza di disperazione.
Provvisoriamente, si potrebbe concludere che la poesia di Anna Malfaiera ha qui il suo tratto caratterizzante, e il motivo dell'interesse che stimola: essa parla con insistenza, con coerenza, anche linguistica, di un oggetto che si rifiuta di presentare, o se si preferisce, di fare comparire.
Simmetricamente, è una poesia piena, che si costruisce per blocchi compatti, il che ha la sua rilevanza, come sanno benissimo non solo i poeti visivi mai loro antenati, che sagomavano i testi in forma di anfora, di uccello, di albero - come si dà forma tosandoli ai cespugli di bosco.
L'"urgenza del dire" trova sfogo anche in tale occupazione degli spazi della pagina. Senza restare prigioniera di schemi passati, la poesia - qui quella di Anna Malfaiera - si ri-esperimenta.
Anna Malfaiera è nata a Fabriano. Da molti anni vive a Roma dove lavora. La sua attività letteraria si è espressa principalmente in poesia. Ha collaborato e collabora a varie riviste letterarie, ha partecipato a letture e a varie manifestazioni culturali. Sue poesie sono apparse su molte antologie.
Libri di poesia pubblicati :
Fermo davanzale - Rebellato . Padova 1961;
Il vantaggio privato - Sciascia - Caltanissetta 1967 e 1970;
Lo stato d'emergenza a cura di Emilio Villa con disegni di Valeriano Trubbiani - La Nuova foglio - Macerata 1971;
Verso l'imperfetto a cura di Adriano Spatola con introduzione di Alfredo Giuliani - Tam Tam - Mulino di Bazzano 1984;
e intanto dire con postfazione di Giulia Niccolai - Il Ventaglio - Roma 1991, nella collana "La camera rossa" a cura di Mario Lunetta.
Il suo incontro con il teatro è avvenuto nel corso degli anni 1987 - 89. Alcuni suoi testi teatrali sono stati letti in alcuni teatri di Roma. E' di recente pubblicazione (1992), rue De Fleurus, edito da Il Ventaglio di Roma con una nota critica di Mario Lunetta.
Link: da LA TRACCIA INDELEBILE, nota critica di Giuliano Gramigna
https://rebstein.wordpress.com/2008/07/23/la-traccia-indelebile-i-anna-malfaiera/
E INTANTO DIRE
Raccolta antologica delle opere
Edimond, Città di Castello, 1999
(postuma)
27, Rue de Fleurus
Propone in forma di dialogo il rapporto fra due esistenze evocato attraverso lo scorrimento di situazioni vissute con sempplicità di atti consueti ripetitivi, sempre sinceri, eccezionali e fortunati.
Una vita in comune di Geltrude e Alice che incrocia, tra memorie ricordi entusiasmi difficoltà e contrasti., tante altre vite di protagonisti e no, tanti interpreti e testimoni di un mondo che diviene.
Geltrude ripete in modo denso e compatto, assecondata dalle acute osservazioni di Alice, frasi e frasi periodi riflessioni giudizi interrogazioni per concludere che il pensiero è vita, la vita avventura, un tutto che si concretizza e si realizza nel piacere di essere scrittura.
"(...) La protagonista e la sua indispensabile Spalla giocano... due ruoli votati
all' indistinzione e tendenti all' unità.
L' unità vissuta come annullamento di sé nell' altra.
Ecco perché, allora, i due personaggi sono soprattutto due voci che si rimandano con gioia disperata la stessa favola, e in essa riconoscono i tratti che di sé medesimi gli sfuggono continuamente, ai fini - si direbbe - di una dimostrazione inconscia:
quella, a suo modo brechtiana, di quanto cannibalismo reciproco costituisca il cemento della coppia; e, insieme, di come la parola sia al tempo stesso portatrice di storia, di memoria e di oblio. Di chiarificazione e di occultamento".
Mario Lunetta
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