Da: il Verri e Perchè scrivi poesie ? 15 gennaio 2001

 

Sulla poesia

Giulia Niccolai

 

Convincenti ragioni

 

Conosco da trent'anni la poesia di Anna Malfaiera, in passato l’ho recensita su “Tam Tam”e su “Differentia”, e non mi erano sfuggiti il rigore e la forza del suo lavoro, il coraggio e l’onestà della sua ricerca.

 

Ma questa scelta antologica dei suoi testi, E intanto dire (1999), arricchita da un’ultima sezione inedita, voluta da Alfredo Giuliani per Diapason (la collana di poesia da lui diretta per le edizioni Edimont), mi ha colpito per quell’ aura di testamento che ha acquisito ai miei occhi a tre anni dalla sua morte, sopravvenuta nel gennaio del 1997.

 

E si tratta di un'eredità meno tranquillizzante di quanto sembri.

 

In un testo da me scritto negli anni Ottanta (che non riguardava Anna Malfaiera in particolare, bensì trattava di quella che — a mi avviso — è la condizione generica del poeta contemporaneo) avevo chiuso in tono ironico, constatando che, come sempre, anche oggi certi poeti rischiano di essere considerati “poeti” solo dopo la morte.

 

In quell’ occasione essendomi assegnata il ruolo di portavoce dei poeti ingiustamente trascurati, la mia battuta provocatoria aveva lo scopo ben preciso di esigere per costoro un maggiore riconoscimento.

 

Ora, quella stessa battuta mi si rivolta contro, mostrandomi quanto sia stata in difetto io nei confronti di Anna, quanto inadempiente nel comprendere a fondo il vero senso della sua poesia, frutto di estremo lavorio elaborazione ma anche necessità, e dunque espressione di un'etica letteraria.

 

Ed è esemplare il fatto che sia proprio lei a mostrarmi ciò che gli inglesi definiscono “poetic justice” con questi cento testi paradigmatici, che sono anche l’ultima testimonianza, l’archivio morale della sua conoscenza e della sua consapevolezza di cosa siano il vivere e la vita.

 

L’aspetto poco tranquillizzante del suo lascito sta in un inevitabile raffronto con la sua osservazione sempre distaccata del Sé, col suo raro e difficilissimo rigore che le impedisce qualsiasi compiacimento, qualsiasi lamentela.

 

L’autrice, come in un costante stato di meditazione, analizza le infinite sfaccettature dei propri stati d’animo e ce ne dà un resoconto poetico e imparziale. Al suo confronto, noi viviamo superficialmente.

 

Sono prive di punteggiatura, le sue poesie, salvo che per il punto fermo, composte quasi esclusivamente di parole astratte, tra loro accostate con sapienti assonanze: “Disposta a indugiare cauta mi trovo avvolta...”, “Un tutto indefinito / conveniente convincente...”, “...noi vediamo e sono tante / le immagini che la mente si stanca di registrare...”: ecco che l’immagine che man mano prende forma, il ritmo che ci risuona dentro, sono quelli di una grande macina di pietra che, giro dopo giro, polverizza e frange tutto ciò che di ispido e irto si trovi a intralciare il suo moto rotatorio e il suo compito di appianare, trasformando.

 

Similmente la coscienza macina il vissuto, cercando di appianare quegli ostacoli e quegli attriti che le potrebbero impedire di trasformarne l’impasto in una valida e convincente ragione di vita, Di felicità, o quanto meno di serenità.

 

Può sorprendere — come sempre mi ha sorpreso in passato — che le poesie raccolte, così omogenee nella loro intelaiatura ritmica e verbale estremamente insistita, non risultino mai ossessionanti o ripetitive, ma che anzi, proprio l’elemento costante di una logica che non accetta compromessi, agisca da catalizzatore, trasformando ogni pensiero, ogni rovello, in una considerazione sempre nuova, sempre fresca e salvifica.

 

A questo proposito, riporterei ora integralmente una poesia del ‘91 che dà il titolo al volume (E intanto dire) e che è anche una dichiarazione di poetica:

 

 

Non ho mai saputo perché mi ostino a scrivere

Determinata. Mai rinunciare correggermi

migliorare. Le mie energie si raccolgono

quasi prestabilite combinate unite opposte

disgiunte a modo loro. Mi premono. Nell’ incastro

confermo e rafforzo una qualche certezza

che appena posta rifiuta di risolversi.

Amo la tregua dello scrivere non considero

le ragioni che lo provocano. Non ho veri

strumenti. Soppeso lo stupore che mi causano

le regole e i Loro artifici. Stupore

che coinvolge il mio essere imprevista.

Una pratica che non so definire se di fede

o finzione. Pudore è farsene gioco.

Un equivoco l’indagare. Meglio non sostare

riflettere non presagire e intanto dire.

 

 

Se, per ammissione dell’autrice, le sue certezze raggiunte tramite la scrittura “rifiutano di risolversi”, questo non è altrettanto vero per i suoi lettori, che anzi possono provare, sia pure momentaneamente, un senso di liberazione per l’analogia o il rispecchiamento dei loro stessi dubbi e delle loro afflizioni dissolti o pacificati dal bilanciamento matematico del suo pensiero.

 

Risulterebbe allora che il sempre rinnovato senso di purezza che le poesie di Anna Malfaiera ci trasmettono, sia dovuto a quello stesso stupore che proviamo anche noi per i perfetti incastri delle parole, trattate come materia (come legno?), sapientemente lavorate, magistralmente inserite l’una nell’altra, l’una sull’altra, archetipicamente simmetriche, che le hanno permesso di erigere un suo personalissimo tempio di scrittura.

 

Fa eccezione a quanto detto (a proposito dell’astrazione di quasi tutti i termini) Il trasloco, un poemetto fitto di rievocazioni concrete:

 

 

...Rivedo ancora le cose

 ricomposte il focolare acceso il letto caldo

 le provviste gli intonaci feriti dai chiodi

 che battevo come se il muro non avesse cuore

 o questi altri versi, fulminanti:

 Di sera la casa imbruniva lenta si tingeva

 viola atterrava in ombra sulla strada.

 

 

dove l’autrice descrive la vecchia casa dell’infanzia con una dovizia di dettagli che risultano struggenti per l’attenzione e l’amore con i quali vengono ricordati, in evidente contrasto con la tenerezza che sembra accarezzare muri e soffitti, orto e cortile, luci e suoni, voci e gesti delle persone che vi abitavano, i tre versi conclusivi mi avevano lasciato interdetta perché li avevo recepiti come una forzatura, una discordanza o una chiusura di comodo:

 

 

La casa sarà demolita. Noi vedremo

 a sua devastazione e non invano ormai cresciuti

 tutti senza memoria per rifarci nuovi.

 

 

Sono poi giunta alla conclusione che il non detto sia invece stato intenzionale: quel trasloco deve aver significato anche la fine della spensieratezza, delle illusioni e della gioventù.

 

Proprio quella insostenibile “devastazione” deve aver fatto maturare in Anna il proponimento di non cercare più niente fuori di sé, perché tutto ciò che sta là fuori è anche terribilmente precario, inaffidabile e deludente.

 

Tuttavia, è forse proprio questo distacco - il non permettersi di vivere in prima persona - il sentimento che, in certi momenti, le ha fatto raggiungere una visione superiore di vera equanimità, che ci accoglie tutti senza esclusioni:

 

 

Vivere è un comando obbligato non dà

consigli non ha convincimenti su quanto

è bene o male su quel che giova, il sole

scalda tutti la pioggia bagna tutti e tutti

ci guardiamo sorridere e soffrire.