Anna Malfaiera

 

LE STANZE URLANO COME VEDOVE, OVVERO COME LA POETESSA SCESE AGLI INFERI  

 

Un’affilata nota critica per scavare nella ‘petrosa, disincantata, autoironica’ voce poetica dell’autrice di Fabriano.

 

Una figura oggi pressocché obliata e che, invece, ci ha consegnato un’opera in versi tra le più significative del secondo Novecento.

 

Un’opera scabra, antisentimentale, insieme metafisica e materialistica, che batte e ribatte sul ‘wesen’ (l’essenza) dell’umano.  

 

La sua calibrata concettualità fa emergere il rispetto della convivenza concreta, delle relazioni storiche e collettive tra individui; il suo distacco dalla vita impregna le pagine, le corrode, le avvelena, ma nello stesso tempo le sottrae all’indifferenza e al gelo.   _______________________________________________________________

 

di Donato di Stasi   

 

PALINODIA. Petrosa, disincantata, autoironica  Malfaiera, ragionatrice attraverso scritti aniconici e acromatici, fedeli a se stessi e al proprio senso morale. Spinosa, dimessa, disagevole Malfaiera, vissuta di poesia e basta, riducendo all’osso consolazioni e accomodamenti, covando nello slancio della solitudine una sua ironia disadorna, armata di una ferrea capacità di giudizio sugli eventi quotidiani, inchiodati uno dopo l’altro sulla tavola irriducibile del pensiero poetante.

 

Paradossale, metafisica, antisentimentale Malfaiera che predilige le parole dure e compatte dei concetti, una scrittura impenetrabile ai trucchi del poetichese. Disillusa, fiduciosa, misurata Malfaiera che non teme la verità rauca del mondo, che non esita a redigere con ostinazione le sue regole dell’imperfezione.

 

Di rado chi scrive ha trovato il coraggio di scorticarsi di dosso le solite immagini catturanti, pochissimi hanno prosciugato in modo così programmatico la retorica dello scrivere, disanimando l’insensibile sentimentalismo: Anna Malfaiera lo ha fatto e nel suo registro inconfondibile ha teso trappole all’Assoluto, ha vinto e ha perso, ha scontato contraddizioni e ripensamenti, ha sofferto e sperato nelle sue stanze di sughero, determinandosi a un ricominciamento della scrittura poetica.

 

Non diluita, impaziente, rabbiosa la poesia di Anna Malfaiera non si presta alla fugacità, richiede frequentazione assidua e avvedutezza, perché l’Io di cui fa scienza non corrisponde all’abusato feticcio femminile, ma a una coscienza paradigmatica (la nostra, in sostanza) senza le velature metaforiche e gli inesauribili inganni della spenta normalità e dell’approssimazione esistenziale. “Sfuggo l’ignominia di tanti / luoghi comuni” (Verso l’imperfetto, 1984) mi sembra un’esemplare dichiarazione di poetica da parte di chi intende il linguaggio come un’avventura nel probabile, una tensione verso possibilità da accertare, verso strane situazioni da accettare.

 

Anna Malfaiera porta alla ribalta letteraria l’impossibile a esprimersi, vale a dire che vagola nei singoli testi un disilluso nichilismo, una decisa negazione del meglio e dell’ottimismo ottuso. Come fossero state azzerate e ridotte a una neutra condizione di opacità, le cose impacciano i movimenti dell’individuo, lo turbano e lo disturbano, dovendo cercarsi ciascuno una qualche collocazione in uno spazio del tutto dis-locato e in un tempo frantumato e equivoco.

 

Certo, è sorte di tutti la sconfitta, ma solo se rinuncia a scagliare parole contro la vita inautentica e becera, solo se non si tende l’orecchio abbastanza per sentire il tonfo della poesia in fondo all’abisso.  

 

CURRICULUM VITAE. Al terzo piano di via S. Quintino 27 Anna Malfaiera appronta il suo teatro di ombre rigide e di specchi irriflessi.  

 

Tra stanze ignorate e disadorne, non potendo fuggire, grida al ritmo di fatti crudi e obbligati, desiderando esporre il suo sarcasmo senza mistificazioni, oltre che i suoi convincimenti non ingoiati dal gioco linguistico, o peggio da una ipocondriaca avanguardia, senza più spina dorsale e sollievo.

 

La vedi ieratica calcolare tremende sconfitte e disporle sulla pagina, per questo offre le sue piaghe modulando cadenze atonali, prive di compensi lirici e di melodie consolatorie: si aggira nel nero di porte nere, di finestre coperte da pesanti tendaggi, eppure la scena risulta abbacinante, luminosissima, quando sillaba il silenzio e delira con una lucidità straziante, con una consapevolezza che lacera consuetudini e ipocrisie (“Meglio non sostare / riflettere non presagire”, E intanto dire, 1991).

 

Nel magma progressivo della realtà, nella palude impraticabile dell’esistenza, Anna Malfaiera assembla il suo catalogo di aneliti che si slanciano prodighi nella scrittura, perché un bene assaporato – che si sappia – resiste, si segue sul volto, penetra nel pensiero e assume il diritto di abitare stabilmente la coscienza.

 

Ci si sente smarriti di fronte al corpus textualis di Anna Malfaiera, quasi stonasse elucubrare dal pulpito didattico, ancora più fuori luogo appare la vivisezione di una qualsiasi chirurgia critica (per questo ho scelto questa forma di rappresentazione teatrale,).

 

Dinnanzi a una scrittura tanto audace, nella sua scientificità, tutta smalto e rovelli interiori, dialettica e teoretica (rara avis per la nostra storiografia poetica), il primo stadio è invocarne la lettura, sic et simpliciter, perché non va fatta cadere nella melmosità dell’insipienza, non la si può  consegnare alle accidie dell’oblio ossequioso. Al cospetto di un werk così ferocemente labirintico e inerpicato  – come appare – per ardue concettosità, il primo impulso del lector medius risulta il non luogo a procedere (la fuga vigliacca), così le presenti note vogliono costituire un appello accorato a entrare nelle reti paratattiche di una testualità eponima per i nostri assilli esistenziali.

 

Anna Malfaiera mostra il suo attaccamento alla solitudine per darci conto di quanto sia vulnerabile e ricattabile una vita spesa agli inferi: è vero l’attesa è un acquitrino di ombre e rimpianti, affatica perché ci si sente sfiorare dal nulla, ma la poesia la sublima e la restituisce come un comando obbligato dell’esistere: credo consista in questo la serietà di questa scrittrice appartata, profonda come i giansenisti di Port Royal, ironica come i sapidi moralisti del ’700, trascinante dentro flussi ininterrotti di linguaggio, dentro adiacenze di significati, enunciati e epifonemi, sistemati acconciamente su una  scacchiera di vitali riflessioni. Dall’al di qua all’al di là, nelle due direzioni di marcia metafisica, Anna Malfaiera si libera dalle strettoie della bella frase, dall’ossessione del verso memorabile per inchiodare la pagina ai segni persistenti, densi e materici, ossidati e scintillanti,  della verità.  

 

ANABASI E CATABASI. Anna Malfaiera è stata qui, tra  i leoni di pietra della quotidianità, sotto il cumulo di pietre di Antigone, affacciata alla rocca in apparenza inespugnabile di Cassandra: ha spianato il suo blocco di versi (versatile, intenso, a volte distante) dal cui fondo fiotta il sangue voluto da Creonte (la poesia contro le leggi della città-leviatano), dalla cui interiorità scaturisce il timore antico, enigmatico, erratico, che alla poesia non venga più riconosciuto il suo carattere di autonomia e purezza contro la città inibente del consumismo onorifico e dello sciupìo vistoso (Veblen).

 

Custode severa del senso del visibile, impegnata in un’attività essenzialmente solitaria (quanto alla forma), autenticamente sociale (riguardo al contenuto), Malfaiera-Antigone-Cassandra batte e ribatte sul wesen (l’essenza) dell’umano: il rispetto della convivenza concreta, delle relazioni storiche e collettive tra individui; il suo distacco dalla vita impregna le pagine, le corrode, le avvelena, ma nello stesso tempo le sottrae all’indifferenza e alla gelidità.

 

Chiusa nel suo ipogeo, o prigioniera della credulità di Priamo verso i Greci, Anna Malfaiera, con le sue due proiezioni teatrali, naufraga e galleggia traversando stanze e corridoi, aggirandosi in tutte le regioni della casa e tentando di schiantare l’ignominia a cui siamo tutti saldamente avvinghiati.

 

Sorpresa a sciogliere dolorosi nodi concettuali, Anna Malfaiera si consegna senza riluttanze, attraverso i suoi libri (Fermo davanzale 1961, Il vantaggio privato 1967, Lo stato d’emergenza 1971, Verso l’imperfetto 1984¸ E intanto dire 1991, Il più considerevole 1993, La porta in faccia 1993, Poesie 1992-1996), a un’esperienza umana e di scrittura, concreta, determinante e significativa.

 

Fra questa poesia e la realtà corre un rastremato rapporto dialettico, sempre vitale, che non si lascia imbrigliare da metaforismo e dal formalismo sperimentalistico fine a se stesso, estetizzante e ingenuo, così i testi corrono felicemente, ancorché complessi e spigolosi, dal chiuso di un interno borghese fino a espandersi con la pienezza delle opere riuscite.

 

Se ci si chiede quali corde di resistente sostanza annodino la vita, è sufficiente impazientirsi a voltare le pagine di questo corpus luccicante e inaccessibile, accessibile e oscuro, terso fino a una sua serena prosaicità, torbido da attanagliare con tutta la potenza del vuoto che ha provato a indagare.

 

È certo che più monta la tempesta artefatta del poetichese, più il cavallo di Troia del consumismo librario si intrufola nella cittadella di Ilio, meno lettori è destinata a avere una scrittrice che non può vantare maledettismi à la page, spettacolarità biografiche o particolari ascendenze di schiatta e lignaggio.

 

Nel mondo storico della critica  è tempo ormai  di scongelare una voce così diversa e ontologicamente ipostatizzata nella pensabilità del poetico.

 

Malfaiera-Antigone-Cassandra si mette nella trappola mortale della poesia e osteggia l’altissimo logorìo e la rapidissima obsolescenza che va acquistando la vita concepita ancora in termini umanistici: la monologista Antigone e la colloquiante Cassandra tendono all’estrema riduzione della parola in un pathos assorbito, riflesso e infine rovesciato in emozioni taglienti e illimitate.

 

Se il primo livello di lettura coglie un’eleganza formale, a tratti cerebrale e rigida, e forse un soggettivismo risaputo e deludente, a una seconda interrogazione dei testi, meno parca e trattenuta, si comprende il lavoro di cancellazione delle ultime tinte ermetiche, di esecrazione totale degli orpelli lirici, di rifiuto dell’agevole composizione per immagini di taglio cinematografico.

 

Impostata la voce su una discorsività atonale, Malfaiera-Antigone-Cassandra addensa sedimenti stridenti, petrosi e disincantati, eticamente avversi a un mondo sproporzionato e rodomontico, insonne, intristito, felice solo feticisticamente.

 

Quando la voce di Anna Malfaiera arriva a profondità mai tentate, a percussività così convincenti e gnomiche, nessuna clausola critica (si spera, almeno) può continuare a ignorarla e a declinarla tra le marginalità del nostro accidentatissimo olimpo letterario.    

 

                                                                                                                     Nereidi, 12 marzo 2007

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