Anna Malfaiera
La poesia della consapevolezza
Omaggio ad Anna Malfaiera nel ventennale della scomparsa
Fabriano, 17 maggio 2017
Biblioteca Multimediale
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Intervento critico di Donato Di Stasi
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Testimonianza di Francesco Paolo Memmo
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Ricordo di Maria Jatosti
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Letture di Giuliana Adezio e Maria Jatosti
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Una resistenza inamovibile
Sentivamo di dirlo...
ANNA DI SEMPRE
Ricordo di Maria Jatosti
Aver conosciuto Anna, averla apprezzata, ammirata, amata, mi impone oggi l’obbligo morale di andare oltre l’emozione e il dolore della sua perdita e di considerare il suo lavoro con attenzione lucida e onesta. Io ci provo da giorni, e continuo a provarci.
Stimolata dall’imminenza di questo evento, ho riletto tutti i suoi libri, da Fermo davanzale, del ’61, a Il più considerevole del ’93, più altre cose sparse in antologie e raccolte varie: un’avventura dello spirito. Provare a tenere a freno l’emozione non è stato facile. Era come riviverla, risentire la sua voce, il suo modo di leggere i suoi versi, così peculiare, con quella musica monotona, bassa, senza enfasi, senza picchi, fioriture, coloriture, effetti, che rispecchiava fedelmente la concezione stessa della sua poesia.
No, non è stato facile. Non è facile. La mente impone ma il cuore si nega, sfugge, si allaga, cerca conforto nella seduzione dei ricordi. Lampi, squarci, memorie di altri giorni, altre storie, altre esistenze. Immagini come fotogrammi fiottano e premono dal buco nero della dimenticanza: chiara nel buio, Anna è con me, persistente. Mi parla, piega la testa un po’ di lato e mi sorride complice, ironica, segreta. Un flash: noi due in giro per qualcuno di quei fastidiosi riti pubblici che la ingombravano e la chiudevano a riccio, isolate e unite in pensieri e umori. Venezia 1988, Palazzo Grassi, i Futuristi. Amava la pittura, Anna, e se ne dilettava con un certo talento. Il ponte dell’Accademia, Giorgione: la zingara col pupo al seno, il soldato che la guarda indolente, entrambi noncuranti della tempesta annunciata dal fulmine che taglia la tela del cielo. Le nostre speculazioni sull’aria distaccata dei due, sulla incomunicabilità degli uomini…
Su e giù per ponticelli, canali e campielli abboffati di truppe trasandate, fino all’alloggio estraneo. Amava la musica, Anna, il jazz. Dove saranno finiti i vinili di via San Quintino che tirava fuori come un giocoliere dal cilindro: i suoi preziosi Coltrane, Davies, Parker…
Rileggere Anna è stata una conferma ma anche per certi versi una rivelazione, una scoperta. Alcuni testi mi stavano scolpiti nella memoria in tutta la loro potenza e sono tra i miei preferiti, come “Non ho mai saputo perché mi ostino a scrivere” o “Leggero persistente mi piace il segno” versi esemplari che, soprattutto il secondo, evidenziano come una definitiva dichiarazione, la poetica di Anna. Per anni mi sono concentrata su questi e altri che riguardano ugualmente la scrittura: la “cosa pensata scritta”, “le pagine argomentate”, la parola immessa nel vuoto “prima che si renda inservibile”, “l’urgenza del dire che non ha mai fine”, cito a memoria. In qualche modo li consideravo chiave di lettura per una poesia essenziale, concentrata, concettuale, compatta, determinata, ostica, dura, così spoglia di metafore, furbizie, artifici, seduzioni, schemi e regole. Così piena di domande, esigente di risposte. Una poesia, come disse una volta Alfredo Giuliani in un intervento pubblico del 20011, non bella. “Bello è il pensiero che rende possibile una poesia così implacabile con se stessa e con gli altri.”.
Ma oltre la testa c’è dell’altro. C’è la solitudine. Il potere della luce che dopo la pioggia si spande sulle cose, sugli oggetti, ma non su di lei… L’illusione strappata “che una porta o una finestra resti/ aperta” per lei… La solitudine che può anche diventare sollievo se “ripara dall’intreccio/ degli eventi che si propagano come malefico/ contagio.”.
C’è il rapporto con il proprio corpo: corpo impaccio, ingombro, sofferenza, estraneità, “proprietà non sempre garantita”, sdoppiamento, “contemplazione negata” – “la smorfia del viso raggrinzito (che) s’incunea taglia la simmetria del composto consueto…” il sangue che ristagna, e che “compresso non sobbalza.”…
C’è l’amore come assenza, come bisogno acuto, ferita sanguinante, “vuoto compiaciuto”, nostalgia di “immagini dei desideri/ che empivano i miei giorni grano a grano”, come manque considerevole dolente, come “Resistenza inamovibile”, il poemetto che sigilla (quasi) la raccolta E intanto dire curata da Mario Lunetta2.
E c’è Anna, tutta. Che mi manca. La sua intransigenza, il suo sguardo implacabile, la sua valutazione lucida e critica degli avvenimenti, la sua impossibilità di adattamento, lo sdegno, lo spavento di fronte alle minacce, agli agguati di un mondo fatuo, triviale, liquido, “beffardo anonimo salato”. Come sarebbe oggi? Come vivrebbe, con quale spregio e amarezza, con quale disagio rabbioso questa universale miserevole spregevole stagione? Troverebbe ancora la fierezza della sua scrittura civile, “impegnata”, per usare un termine avvilito?
La sua verità, che mi manca, così ostinatamente ricercata. Il suo “istinto ingordo”, la sua “rabbia non più trattenuta”, la “determinazione a decidere libera”, l’indignazione furente consapevole di Anna soggetta ma mai rassegnata, mai sopraffatta poiché “contro potere e utilità come monete valide di scambio, contro “valori illusori decorativi alibi di azioni/ impacciate…” “Si dispera esaurita la natura/ dell’uomo non corrotto quella che s’investe/ responsabile, che s’infiamma e non fonde.”, come si legge in un nobile testo presente in una antologia di Filippo Bettini3. La sua tensione morale, l’urlo di certi testi prossimi all’invettiva come questo che chiude l’ultima raccolta di Anna4
Siamo al grado zero di valenze perdute
un inventario di complicità casuali e no
di assurdità credibili. Campionario.
Furbi cretini porci scemi: E l’orco?
e gli sciacalli? e i coglioni? Ahi!
Faccia a faccia insultandoci corpo
a corpo scontrandoci persiste accanita
la volontà irriducibile del sopraffarci.
Anna amore indignazione pensiero riflessione combattimento confronto e tenerezza: tutto si fonde, là “dove convive alleata la spina con la rosa”5, in una forma, un tutt’uno compatto coerente che è lei, il suo corpo, il suo aspetto, la sua voce, la sua presenza scolpita, il suo “passo pesante pietra/ che andando qualcuno rimuove”…
Mi manca la sua dialettica, la sua severità di giudizio, che era consapevolezza e orgoglio della propria scrittura così personale e innovativa con quella forma imponente a blocchi granitici e pure sonori, teatrali, in odio di fiati, interpunzioni, abbellimenti, cosa che la accomuna a Gertrude Stein, la scrittrice americana ritratta da Picasso che tanto le assomiglia, alla quale Anna ha dedicato un testo,6 di cui ho curato una mise en scene che probabilmente non le sarebbe piaciuta e non avrebbe esitato a dirmelo esplodendo in una delle sue impennate, per ripagarmi subito dopo con riflessiva e amorosa generosità riflesso di una fragilità e di uno stupore (termine ricorrente nei suoi versi) che la rendevano così umana. Ma non ha potuto. Se n’era già tornata al suo paese “pigro dentro i monti”, “che pare che muore ed è già morto”. “Gli uccelli ruotano a vuoto… gli uomini vanno cauti a concludere un rito”.
E io concludo la mia chiacchierata che non è un rito come non è un rito questa riunione commossa e tesa, e per farlo, se l’emozione non mi tradirà, ho scelto di leggervi il testo che inaugura la sezione finale, intitolata “La porta in faccia”, dell’ultima raccolta di Anna7
C’è aria di rinuncia c’è aria di chiusura
c’è aria di aldilà. Mi è negata la speranza
di esiti favorevoli i progetti da sempre
si ritraggono chiudendomi la porta in faccia.
L’avvenire di schiena in direzione opposta
conferma il negativo prodotto dai contrasti
ostacoli urti tensioni un tutto assommato
in cui impigliata non ho trovato scampo.
Sgobba non indugiare affrettati provvedi
sarà piuttosto duro tocca a te sei forte tu.
Ed io a mostrare zelo voglia di predisporre
pensavo per il meglio. Dedizioni sacrifici
comprensione rabbia l’avventura no per difetto
di capacità cognizioni competenze attitudini.
Carichi fardelli affanni prove di forza
mai a riprendere fiato. Energie sprecate.
In un angolo finalmente arresa mi avvolge
l’eco – Molla tutto. Ormai resti d’impaccio.
Maria Jatosti
Fabriano 2017. Vent’anni dopo
Note al testo
1.Intervento di A.G. nell’ambito di “Cara Poeta 2001”, Roma. Rassegna Annuale di Poesia delle Donne, a cura di Maria Jatosti.
2.E intanto dire, Il Ventaglio, 1991. Collana “La Camera Rossa” diretta da Mario Lunetta. Postfazione di Giulia Niccolai.
3.Poeti contro la mafia, a cura di Filippo Bettini, La Luna 1994
4.Il più considerevole, Anterem edizioni, 1993, a cura di Ranieri Teti. Nota critica di Giuliano Gramigna
5.Mario Lunetta, Acrostico per Anna Malfaiera
6.27, rue de Fleurus, Il Ventaglio 1992, con una nota di Mario Lunetta
7. Il più considerevole, op.cit
FRANCESCO PAOLO MEMMO
Testimonianza per Anna Malfaiera1
Non ricordo quando ho conosciuto Anna. Voglio dire: la data, il luogo, l’occasione. Ho provato anche in questi giorni a recuperare qualche frammento di memoria, ma inutilmente. Certo sono trascorsi molti, moltissimi anni; fa impressione dire: quasi mezzo secolo, ma è la verità. uqualche coordinata
Ricordo perfettamente, invece, quando, prima ancora di conoscere lei, ho incontrato la sua poesia: nel 1972 già collaboravo al Supplemento Libri di “Paese Sera”; non recensivo, se non saltuariamente, la poesia (il titolare era Dario Bellezza), ma ugualmente mi portavo a casa tutti i libri che si accumulavano in redazione. Un giorno mi capita fra le mani un volume che non poteva passare inosservato: intanto per le dimensioni, che non erano quelle di un libro di poesie ma piuttosto di un libro d’arte (e infatti era un libro d’arte, con gli inquietanti disegni di Valeriano Trubbiani); poi per la strana copertina a sfondo giallo, con un disegno ancora più inquietante di quelli che avrei trovato all’interno; infine perché, a parte il titolo e l’indicazione dell’editore, non figuravano i nomi degli autori; bisognava aprirlo, il libro, e sfogliare due o tre pagine, per sapere che gli autori erano Anna Malfaiera, Luigi Paolo Finizio e Valeriano Trubbiani. Trubbiani era l’autore dei disegni, e va bene, il suo nome lo conoscevo; ma poi c’erano un testo teorico e una serie di poesie.
Chi, degli altri due, era il poeta e chi il critico? Entrambi i nomi mi erano totalmente ignoti. Il libro lo sfoglio pagina per pagina, salto il testo teorico (troppo difficile per me), ammiro i disegni (ho detto inquietanti? Inquietantissimi!), leggo qualche verso en passant, poi c’è la ripresa del testo teorico iniziale, che a maggior ragione salto, e finalmente, arrivato all’ultima pagina, ecco la soluzione del mistero: le poesie sono di Anna Malfaiera. L’altro, Luigi Paolo Finizio, è (l’ho saputo dopo) un importante storico e critico d’arte.
A questo punto, forse, passa anche la voglia di leggerlo, un libro così; basta la sommaria ricognizione compiuta. A me invece la voglia venne e fu immediatamente una rivelazione folgorante: la certezza di avere scoperto un grande poeta.
Tra quei testi uno mi colpì in modo particolare. Non perché fosse più bello degli altri (non lo era, infatti) ma per il motivo che fra poco cercherò di spiegare. Partendo da quello scrissi per la rivista “Galleria” un saggio in cui esaminavo alcuni componimenti (allora) recenti notando in essi la ricorrenza di alcune figure quali l’iterazione, il dubbio, la specularità. L’iterazione era esemplificata dalla poesia di Anna che si intitola Ripetizione dell’atto e quel libro - di cui mi accorgo di non aver ancora detto il titolo - è Lo stato d’emergenza: il terzo di Anna ma a mio avviso il vero inizio della sua carriera poetica. Ancora oggi quella poesia mi sembra per moltissimi versi straordinaria. Sentite:
Va' all'inferno tu e tu e tu e tu
tu con lei tu con lui e tu con l'altro
e l'altra e anche tu va' all'inferno
e tu tu e tu tu tu tu tu tu
e ancora tu e tu e sempre tu
nel medesimo modo quando che sia
e la ripetizione dell'atto e delle parole
e la ridondanza di tutti i criteri
immutabili di comprensione e giudizio
Straordinario davvero questo testo, non solo per la sua intrinseca forza ma anche proprio perché contiene come in una goccia di sangue tutto il DNA della poesia futura di Anna. Qui lei prende definitivamente le distanze da quello che aveva scritto fino ad allora e fonda la propria idea di poesia, il proprio linguaggio cui rimarrà sempre fedele: una poesia martellante, spigolosa, dura, secca, diretta; fatta quasi esclusivamente di pensiero, voglio dire pensiero allo stato puro, senza abbellimenti orpelli barocchismi - e dunque al bando gli aggettivi, tranne quelli strettamente necessari (qui se ne conta solo uno in tutto il testo), bando alle figure retoriche (e poi anche, soprattutto, alla retorica tout court), bando a ogni forma di deteriore lirismo. Del resto, non si aggettiva una rosa, come ci insegna Gertrude Stein, la poetessa che Anna considerava a sé sorella: una rosa è una rosa è una rosa. Nessun compiacimento, dunque, nessuna civetteria, nessuna captatio benevolentiae nei confronti del lettore. Il quale è costretto a un duro corpo a corpo con una poesia che (a parte qualche eccezione - penso, ad esempio. a un componimento più tardo, che si intitola Il trasloco) non si distende nella narrazione, ma si racchiude in se stessa, come a riccio, e sottintende i fatti, il più spesso acri e dolorosi, da cui pure nasce. Insomma, tutto questo mi impressionò, già allora, della poesia di Anna. E su questi elementi ho insistito, negli anni successivi, ogni volta che mi è capitato di occuparmi di Anna, fino alla presentazione che facemmo a Roma, nel ’94, presso la Galleria “Il Canovaccio”, del suo ultimo libro: Il più considerevole.
Di esattamente vent’anni prima - 1974 - è il saggetto nato dal mio primo incontro con la poesia di Anna; e magari fu proprio così che ci conoscemmo: perché lei mi cercò per ringraziarmi, non so. So che poi nacque una lunga amicizia, una lunga frequentazione: le cene a casa sua, al ristorante cinese di San Giovanni, la partecipazione alle stesse serate di poesia (allora se ne facevano molte, e molte rassegne, negli anni Ottanta-Novanta, a Roma, le organizzava Maria), le chiacchierate sui poeti, sulla poesia, sul senso che ha, che deve avere, l’esercizio della poesia, l’ostinazione e la fatica che occorre per farla.
Fu in occasione proprio di una delle serate di Maria (una in cui eravamo in due a dividerci lo spazio: io e Anna, appunto) che scrissi per Anna una delle mie ultime poesie. L’ho ritrovata fra le mie carte e mi piace leggerla qui, per ripeterle l’omaggio, siccome in tutti questi anni è rimasta inedita. Si intitola La necessità del respiro e mi illudo che possa essere considerato come un piccolissimo saggio in versi:
Con atti opportuni, accertato il probabile,
ostinata ne cerchi la ragione,
rifletti nel tuo spazio, conosci
la fatica del fare, del dire, la coazione
a ripetere che nessuna poesia risarcisce.
Solo la cosa conta, e l’esperienza,
la vigilanza dei sensi che manda
all’inferno il dolore: non lo cancella.
E conta infine la perseveranza,
la resistenza al sonno,
il tuo pensiero che non cessa di pensare,
con cui fai pace e fai guerra
in infinite varianti, in plurime occasioni,
la non significanza sotto tiro,
il ripudio del luogo comune
che ti salva: la necessità del respiro.
Ecco: la poesia come pensiero - l’ho già detto, e l’ho scritto in altre occasioni. Anche per Anna si può adottare la formula creata per definire la poesia di Leopardi (sempre nelle Marche siamo!): pensiero poetante. E poesia come atto naturale di vita, necessaria alla vita come il respiro. E su questo voglio dire ancora qualcosa, ancora ricorrendo all’autobiografia.
Succede che nel 1991 le strade mie e di Anna si incrociano anche editorialmente. Mario Lunetta, che ha sempre accompagnato la poesia di Anna con grande attenzione critica, volle ospitarci entrambi nella collana che dirigeva per uno sciagurato editore di cui si son perse le tracce: “La camera rossa”, che propugnava l’idea di poesia materialista per la quale Mario ha speso gran parte delle sue energie. Lì io pubblicai quello destinato ad essere il mio ultimo libro, con cui decisi di chiudere con la scrittura in versi. Si intitolava In via esplorativa, ma ormai per quanto mi riguardava l’avventura esplorativa finiva lì. Il libro di Anna, splendido, si intitolava E intanto dire, e non fu il suo ultimo. Ne seguì infatti un altro, a breve distanza, (Il più considerevole, che prima citavo, nel ‘93) e tanti altri, ne sono convinto, sarebbero seguiti se di lì a poco non fosse sopraggiunta la morte.
La cosa curiosa è che quel libro (E intanto dire) porta la postfazione di un’altra persona che con la letteratura aveva cominciato ad avere (e non da allora, ma per ragioni totalmente diverse dalle mie) un rapporto, diciamo così, problematico: Giulia Niccolai, dico, poetessa pure lei che, se l’Italia fosse davvero un Paese culturalmente civile, oggi sarebbe conosciuta non solo da un’esigua minoranza di lettori. Giulia Niccolai e Anna erano amiche, ma è difficile immaginare due persone così fra loro diverse non solo caratterialmente ma proprio anche nel modo di scrivere e più ancora nel modo di concepire l’esercizio della scrittura. E infatti in quella postfazione, in forma di lettera indirizzata ad Anna, la Niccolai dice che negli ultimi quattro anni, mentre Anna meditava sulla materia che si sarebbe trasformata nella poesia di quel libro, anche lei meditava, ma in altre forme, avendo scoperto gli insegnamenti buddisti e la meditazione con un Lama tibetano. Per cui, aggiungeva, «mi sembra di poter dire che in questi ultimi quattro anni, sia tu che io non abbiamo fatto altro che meditare, con la sola differenza che, alla fine, tu hai prodotto questo bellissimo libro e io non ho scritto più niente o quasi.
Ricordo anche che una volta per telefono mi chiedesti se il seguire gli insegnamenti buddisti, come stavo facendo, non mi rendesse forse la scrittura estranea e impossibile: perché questo, tu, non ti sentivi di poterlo fare, non accettavi l’idea di vivere senza poter scrivere. In effetti, nemmeno io sentivo di poterlo fare proprio perché la scrittura era troppo importante per me. Ma l’essere riuscita a rinunciare anche a questo mi ha reso più libera perché mi ha fatto capire fino a fondo la natura di quel mio attaccamento e quanto esso mi rendesse vulnerabile e ricattabile nei confronti della vita».
Sta tutta qui la differenza tra Anna e me e la Niccolai e Di Stasi (un altro che si definisce ex poeta). Per noi la poesia ha costituito (o costituisce, per chi la pratica: perché graziaddio c’è chi la pratica ancora) un’attività, un gioco (il più sublime gioco dell’intelligenza) o chiamatelo come volete: un arricchimento della vita, certo, ma a cui si può anche rinunciare per qualcosa d’altro o per niente, per sempre o magari solo temporaneamente. Per Anna no. Per Anna la poesia era necessaria alla vita come il respiro. Non è che, come dice la Niccolai, non accettasse l’idea di vivere senza poter scrivere. È che proprio non poteva vivere senza scrivere. Vivere significa dire: e intanto dire. Non servirà a nulla, dal momento che nulla può risarcirci delle ferite e dei dolori e dei lutti che la vita ci riserva, nemmeno la poesia, nemmeno il fare poesia («finché io viva sarò offesa da tutto» è un suo verso bello e terribile), ma: intanto dire. Perché se non si dice non si respira. E se non si respira si muore. E allora non solo vivere significa dire ma anche dire significa vivere. Ed è per questo, e non per altro, che certi poeti - Anna tra loro - continuano a vivere, non muoiono mai.
Testo letto in occasione della manifestazione tenutasi a Fabriano il 17 maggio 2017 per commemorare il ventennale della scomparsa di Anna Malfaiera.
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