MARIO LUNETTA " ET DONA FERENTES"
Sindromi del moderno nella poesia italiana da Leopardi a Pagliarani
Ed. del Girasole - luglio 1996
Anna Malfaiera: amor philosophicus in musica atonale
Davanti a un testo della compattezza nervosa di “Una resistenza inamovibile” ci si chiede se possa darsi poesia d’amore che non sia poesia filosofica, tanto perentorio e definitivo appare il gesto dell’autoriflessione, come un faro che non risparmi neppure l’angolo più geloso, uno specchio ustorio che bruci tutto, senza residui.
Nel discorso d’amore filosofico di Anna Malfaiera non è consentito alcun alibi: la salvezza (o la giustificazione) è tutta intera nello spazio scavato dalle parole.
La partita si gioca entro il ring metrico-semantico, con una sbalorditiva (e crudele) coscienza dei limiti di questo spazio.
Le regole del gioco impongono una concentrazione estrema: e Anna Malfaiera, che di tale codice è responsabile, le rispetta e al tempo stesso le infrange, battendo su una musica sorda, atonale, che respira quasi solamente in virtù dell’intensità della propria misura astrattiva.
In questa poesia disperatamente mentale la testa brucia quasi eroicamente gli effetti della catena di scacchi su cui lavora, sicché le perdite secche dell’esistenza diventano energia di stile, e il rapporto col mondo converte la sua difficoltà ed asprezza in tensione di scrittura.
Si badi anche alla struttura spaziale del testo: come altre volte - e starei per dire, come sempre - “Una resistenza inamovibile” si accampa sulla pagina come una serie di piccoli fortilizi, le strofe hanno apparenza di casematte quadrate, solide, inespugnabilmente difensive, il verso lungo, ragionativo e sillogistico, non ospita il grido o l’esclamatività, e predilige la figura dell’iterazione, talora ai limiti dell’ossessione paratattica.
L’interlocutore (e magari il bersaglio imprendibile) di questo Soggetto straniato che si parla addosso con irosa fermezza, è l’Altro che non corrisponde: nel senso, intendo, di non corrispondere mai alle attese, alle aspettative.
Il poeta lo inventa, anzi se lo inventa addosso, lo costruisce e lo annulla mano a mano che annulla se stesso.
Il gioco del rispecchiamento è un gioco liquidatorio, una vocazione irrimediabilmente nihilistica. La Malfaiera - qui la sua forza - altera l’azzeramento nihilistico mediante la messa in gioco di un’area logica, geometricamente definita, in cui versare e decantare senza sentimentalismi, con appassionata esattezza, il furioso caos del molteplice esistenziale.
Qual è, allora, il procedimento compositivo della poetessa marchigiana? Direi che si potrebbe sostanzialmente definire come istituzionalizzazione dell’ipotesi, cui necessariamente corrispondono
1) la disseminazione degli elementi più diversi e contraddittori dell’esperienza;
2) la différance, nell’accezione derridiana, come differimento, rimando della soluzione, coscienza amara dell’inconclusività.
E perciò evidente come in una poesia tanto plurale il Soggetto non possa che essere cancellato in quanto portatore di un privilegio lirico, e al più ribadito solo in quanto emblema, funzionando comunque come campo di forze magnetiche, smembrato ombelico delle pulsioni.
Il flusso di coscienza malfaieriano scarta i momenti di scrittura espressiva, abolisce il grido e realizza la continuità della propria voce straniata nel solco di un cursus monotono, uniforme, nel quale anche i deragliamenti minimi assumono la portata di straordinarie lacerazioni.
La poesia di Anna Malfaiera, insomma, si pone come il racconto in negativo di un’esistenza comunque attiva, non di un suicidio.
Negazione della negazione: quindi, positività non consolatoria, adesione alla vita dentro la botte chiodata dei suoi conflitti.
Cosa sta a significare la grande frequenza dei verbi all’infinito o al gerundio lungo l’intero percorso di questa poesia, se non il tentativo di introdurre spie nell’ambiguità del suo fluido universo, in cui nulla si può definire una volta per sempre? Qui, credo, sta il vero senso tragico dell’intera ricerca di Anna, ancora una volta magnificamente esplicitato in questo bellissimo testo.
Una poesia disseminata e insieme compatta, quella della poetessa fabrianese: nella quale la perdita del soggetto lirico sulla scacchiera sembra irrimediabile, e invece, di volta in volta, pervicacemente, ha la forza di ritrovarsi per virtù di pulsione drammatica trattata con obliqua fermezza.
Da una parte, insomma, si affida al distanziamento, dall’altra alla decostruzione spaesante, e come sgomentata di sé pur sul filo di una lucidità di pronuncia implacabile.
L’ego soggettivo (e protagonista), il vissuto che alimentano costantemente i testi malfaieriani non sono mai resi celebrativamente, in termini immediati e spontaneistici, lirico-domestici o lirico-enfatici, ma pressoché sempre raggelati, direi solidificati entro una sorta di sarcofago durissimo, di gabbia ferrea e petrosa.
Ti verso lungo della Malfaiera è un verso discorsivo e spesso nutrito di pòlemos proprio nei confronti di quel pathos che preme all’interno dei suoi munitissimi valli.
Un verso lungo tutto franto dentro, nelle sue salde giunture, nei suoi nervi tesi, che non concede un’unghia all’elegia o al sentimentalismo e invece riafferma una passione contratta delimitandone i confini con grande energia espressiva.
Si potrebbe dire, così, che Anna Malfaiera usa in senso filosofico la propria personale Erlebnis.
Dalla sua individuale soggettività prende le distanze bloccandola in una sorta di scafandro sintattico arduo e strenuo, capace di generare una fortissima drammaticità interna al discorso contraddicendone sistematicamente le premesse logiche.
Non c’è quindi, nella poesia di Malfaiera, un innalzamento repentino del grido, ma piuttosto una sequenza di urli soffocati, di invettive sorde, di violenza portata spesso anche contro se stessa.
Mai un’esplosione isolata in termini clamorosi, mai un apice singolo che s’impenni in verticale, ma piuttosto una lunga, faticosa e ardente tenuta di tono basso, come se le pulsioni robuste della psiche dovessero essere sempre frenate o mantenute al guinzaglio da un logos stringente e paradossale, che è la caratteristica più rilevante di questa poetessa di linea per così dire neoleopardiana, se mi si passa il termine.
Questo processo problematico è visibile soprattutto a partire da libri come Il vantaggio privato del 1970 e Lo stato d’emergenza del 1971; e, in termini e modi di autentica, libera originalità espressiva, nei testi raccolti in Verso l’imperfetto, uscito nel 1984 e prefato con molta adesione da Alfredo Giuliani: una storia già densa di ricerca e di risultati, un itinerario che dalla “resistenza inamovibile” (per dirla con le parole della stessa autrice) ha fatto, con coerenza e consapevolezza rare in questi anni superficiali e opportunistici, il proprio asse di resistenza e il proprio sigillo di inequivoca riconoscibilità.
1989-91
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